Ogni comunità fonda la propria esistenza su due valori fondativi identitari: la partecipazione e l’appartenenza.
Se la prima proviene principalmente dal FARE, e quindi dal fatto e dalla possibilità di agire operativamente per gli obiettivi collettivi, la seconda attiene per lo più all’ESSERE.
Quindi si è parte di una comunità per nascita o per adesione a una cultura: una adesione resa esplicita e accettata dai membri già in essere attraverso il superamento di una iniziazione e la partecipazione ai riti che la comunità stessa considera espressione della propria identità.
I riti sono infatti narrazioni che rinsaldano i concetti che definiscono il comune sentire dei gruppi umani, che indicano di cosa abbiamo orrore, cosa ci fa ridere, cosa ci commuove, cosa definisce e confina il giusto e lo sbagliato per chi vuole essere parte della collettività, che ne delinea l’episteme.
Il trasferimento sul consumo delle forme di appartenenza identitarie ha per diversi anni funzionato molto bene, ma ha svuotato di senso i simboli utilizzati nella neo-narrazione per ridurli a ornamento (pensiamo ad esempio alle magliette “University of…”: sulle prime raccontavano il desiderio di far parte di quella comunità di studenti, oggi hanno tutt’al più una vaga connotazione giovanilistica).
Ma di nuovo non esiste identità collettiva senza riti collettivi e la sostituzione dei riti con il possesso di simboli è oramai scarsamente utile a riempire il vuoto di spiritualità condivisa che disgrega le comunità.
Aver ucciso il teatro e il cinema è stato per questo motivo ben più grave della pur intollerabile perdita di rilevanza della cultura e di posti di lavoro importanti: è un attentato alla coesione delle comunità, che perdono la capacità di considerarsi un “noi”, per rappresentare presso i propri stessi membri una ben più misera collezione di “io”.
L’artista deputato a narrare la collettività a sé stessa, chi danza, recita, canta o suona, in questo senso, non è un “lavoratore dello spettacolo”, ma un officiante: non ha semplicemente il ruolo di trasformare in denaro la risposta a un bisogno, ma quella di permettere al pubblico partecipante di diventare una comunità, magari temporanea, ma coesa sui valori espressi dalla performance.
Guido Silipo